Durante la pubblicazioni dei libri della collana: I Dialoghi, gli autori erano impegnati nel confronto con i ragazzi delle scuole superiori. Alcuni autori erano molto portati nel dialogare con gli adulti-giovani.
Francesco Paresce – noto astrofisico che ha lavorato per molti anni negli Stati Uniti e in Olanda, nonché nipote di Marconi – riuscì, ad esempio, ad animare una lunga discussione con gli studenti di un liceo di Pescara, interessati a capire in quale direzione stava evolvendo la scienza.
Venti anni fa si parlava della genetica come del futuro; oggi è quasi già il passato. La teoria delle stringhe, in fisica, è stata abbandonata; laddove solo qualche anno fa si era disposti a giurare che da lì sarebbe venuta la risposta a qualsiasi domanda inerente l’origine dell’Universo.
Creare il futuro della scienza
Immaginare gli orizzonti futuri della scienza è compito tutt’altro che semplice, vista la progressione della ricerca ai nostri giorni, ma i giovani vogliono certezze, prima di intraprendere un percorso scientifico universitario.
Hanno molto senso pratico: sanno perfettamente che quello che oggi ti fa guadagnare, domani sarà con ogni probabilità obsoleto. Indovinare il futuro è il loro primo problema.
E chi meglio di uno scienziato, di una persona che in certo qual modo contribuisce a “creare” il futuro, può offrigli la risposta giusta?
Ho notato lo stesso tipo di interesse anche quando portai il “padre” dei frattali, Benoit Mandelbrot, in una scuola di Roma. E con mia somma sorpresa, in presenza dei ragazzi, anche lui fu molto più loquace della nostra prima intervista.
Anzi, confesso che la prima volta che ci incontrammo, mi trovai in enorme difficoltà, perché rispondeva alle mie domande in maniera così stringata che, dopo appena mezz’ora, avevo esaurito tutti gli argomenti che mi ero preparato.
Lui percepì il mio imbarazzo e quando gliene spiegai la ragione, si sbottonò in un largo sorriso e disse: “Non sono abituato a parlare di me, ma ci posso riprovare”.
Ricominciò da capo, rispondendo nuovamente ad ognuna delle precedenti domande, ma stavolta soffermandosi molto più a lungo sui suoi ricordi e sulla sua personale esperienza. E lì venne fuori lo scienziato dalla “rara potenza immaginativa” di cui mi parlava spesso Arcidiacono.
È difficile spiegare la gioia che si prova, dopo tanto lavoro, nel testare l’apprezzamento e l’utilità di un libro pubblicato in una classe scolastica.
I giovani sono i giudici migliori, i più imparziali: se una cosa non gli interessa, sbadigliano, chiacchierano, si distraggono. Ma quando gli interessa, vedi che c’è una sorta di voracità nei loro occhi: stanno aspettando il momento delle domande.
E alla fine arrivano sempre e numerose: le più impensabili, le più fantasiose, le più divertenti, ma anche – e molte – di ordine pratico.
Ammetto che, negli ultimi anni, è cresciuto il numero di coloro che chiedono: come si fa ad andare all’estero? Non so se sia un bene o un male, nella misura in cui, comunque, è una domanda che apre al futuro.
Presentazione spaziale
Tra le tante presentazioni fatte, c’è n’è una che mi è rimasta particolarmente impressa, per la sua intensità.
Presentavamo il libro di Umberto Guidoni – Il giro del mondo in ottanta minuti – al liceo Visconti di Roma.
L’aula magna del Visconti è un luogo che incute rispetto, forse anche un po’ di paura, con quell’alto pulpito in legno scuro, cesellato e incrostato di secoli di cultura, che incombe sulla platea.
Umberto se ne stava là, in cima, a raccontare le sue avventure di astronauta: l’unico italiano, all’epoca, che avesse avuto il privilegio di partecipare a una missione spaziale.
I ragazzi lo seguivano con grande attenzione. Qualcuno letteralmente a bocca aperta. Poi arrivò il momento delle domande.
Si sbizzarrirono: c’era chi voleva sapere che aspetto avesse la terra vista dallo spazio, chi se è vero che nello spazio si galleggia, persino uno che voleva sapere come si facesse a fare pipì in assenza di gravità…
Poi dal fondo dell’aula si fece avanti un ragazzino piuttosto mingherlino. Arrivò fin sotto al pulpito, guardando Guidoni come se stesse assiso direttamente sulla Luna, e chiese: “Io vorrei sapere quali studi devo fare per diventare astronauta.”
Cosa farò da grande
Ora come ora, se dovessi decidere “cosa farò da grande”, proprio come quel ragazzo, credo che opterei per una serie di testi dedicati agli scienziati cinesi e indiani, per capire dove vogliono andare, perché sono loro a dettare il futuro.
Poi vorrei fare una collana con interviste ai sindaci di varie città del mondo, per capire e spiegare come si affronta il quotidiano di una grande metropoli.
Per un editore i libri pubblicati sono importanti tanto quanto quelli “mancati”: ci sono persone che ho inseguito per anni, senza purtroppo riuscire ad incontrarle. Eppure, mi hanno lasciato comunque quella nostalgia che è tipica di ogni sogno che non si realizza mai fino in fondo.
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