Penso a Martin Rees come a un profeta della buona novella. Fu lui, infatti, a dirmi – quando c’incontrammo la prima volta nel 2003 – che la collana era destinata a un sicuro successo e che in capo a 4-5 anni avrebbe toccato quota cento.
Non solo il progetto gli era molto piaciuto – mi aveva risposto, dopo il primo contatto, in soli due giorni – ma trovava “vincente” l’idea di creare una sorta di comunità intellettuale fatta di autobiografie.
“Un nome tira l’altro”, preconizzava. E aveva ragione. Man mano che il catalogo si allargava, incontravo sempre meno resistenze da parte degli autori – soprattutto nomi eccellenti – nel concedersi per un’intervista.
A essere sinceri, devo dire che gli anglosassoni si sono sempre dimostrati più entusiasti ed educati della gran parte degli italiani. Se da un anglosassone mi aspettavo comunque un cenno di risposta, anche se di rifiuto, con gli italiani mi ero abituato al silenzio e all’indifferenza. Già, perché gli intellettuali nostrani sono sempre troppo occupati, persino per rispondere “no, grazie”.
La risposta, affermativa, di Rees mi arrivò contemporaneamente alla missiva di Desmond Morris, in quella che ricordo come una giornata particolarmente fortunata.
Così, con un solo viaggio a Cambridge e Oxford, e a distanza di due giorni l’uno dall’altro, li andai a trovare entrambi. Rees abitava in una tranquilla villetta al limitare della città. Rammento che dopo casa sua c’erano solo prati a perdita d’occhio.
Si fece trovare sulla porta, perché in mezzo a quel silenzio non gli era stato difficile sentire il rumore, quasi fuori luogo, del taxi che mi aveva accompagnato.
L’abitazione dava segno di estrema cura – gli alberi, le siepi e i fiori del giardino tradivano l’opera di una mano esperta – ed era molto luminosa. L’arredo dai colori tenui ma caldi dava un senso di comfort, che raramente ho provato nell’entrare in un luogo a me estraneo.
Ci accomodammo in poltrona, in un angolo raccolto della casa, quasi come vecchi amici che hanno molto da raccontarsi. E, in effetti, parlammo ininterrottamente per sei ore.
Come già Desmond Morris, anche Rees si era preparato uno schema del possibile libro e la sua conversazione era così esaustiva che raramente lasciava spazio alle mie domande.
Quasi subito, anzi, avevo abbandonato l’idea di “gestire” la conversazione: ci sono persone che non hanno bisogno di essere imbeccate. Basta dare il “la” e si sciolgono in un eloquio quasi ipnotico. Martin Rees era una di queste persone.
Rammento che quando la moglie – una signora di grande fascino, anche lei docente all’università di Cambridge – fece il suo ingresso con il vassoio dei panini, quasi sobbalzai sulla poltrona, tanto mi ero abituato alla calma riflessiva di Rees.
Approfittammo della pausa per scambiarci considerazioni sul modus vivendi dei nostri rispettivi paesi. I coniugi Rees avevano un buon ricordo dell’Italia e un’ottima considerazione di alcuni scienziati, come Margherita Hack, ma lamentavano la scarsa organizzazione del nostro paese.
Difficile dargli torto. Soprattutto da una comoda poltrona nel bel mezzo della campagna inglese.