Desmond Morris l’ho conosciuto dai suoi libri quand’ero ancora un ragazzo: La scimmia nuda, in particolare, mi aveva proprio appassionato. Ero rimasto colpito dalla sua capacità di catturare il lettore, come fanno i veri scrittori. Cosa tutt’altro che comune fra gli scienziati.
Il suo era un parlare “semplice”: dotto e al tempo stesso discorsivo. Mi feci di lui l’idea di un uomo che, almeno una volta nella vita, vale la pena incontrare.
Più tardi i miei studi universitari, quelli risalenti all’epoca della mia seconda laurea, in psicologia, mi portarono nuovamente in contatto con questo autore.
E ancora una volta rimasi colpito dalla fine comprensione dell’animo umano, delle sue manifestazioni esteriori e dei suoi atteggiamenti, che emanava dai suoi scritti. In un certo senso, pensavo, quest’uomo ne sa quanto Freud sulla natura umana…
Poi, nel 2000, da editore, mi sono ritrovato nelle condizioni di realizzare il classico “sogno nel cassetto”: intervistare Morris per la collana “I Dialoghi”. In un certo senso, il bello del mio mestiere è anche questo: realizzare e condividere sogni.
L’invito a Desmond Morris
Appena due giorni dopo la mia mail di presentazione, arrivò la sua risposta. Entusiasta. Ci incontrammo a Cambridge, nella sua dependance, proprio accanto alla sua abitazione. Più di tutto mi colpì la biblioteca: un insieme di libri, reperti archeologici e oggetti provenienti da tutte le parti del mondo.
Vi regnava quella confusione che è tipica dei luoghi di meditazione e di studio intensamente vissuti. Intorno a noi adocchiai alcuni computer e un tavolo pieno di bibite e panini.
Tutto faceva pensare a un luogo nel quale chiudersi a lavorare, per giorni e giorni, provviste alla mano, senza sgradite interruzioni. Soltanto dopo mi informò che bibite e panini erano per noi due.
Decisamente aveva in previsione una lunga giornata di lavoro, che cominciò subito dalla pila di libri e articoli che incombeva sui panini: erano i suoi scritti.
Un fiume in piena
Mi colpì molto l’impegno e la serietà che aveva riposto in quel nostro primo colloquio. Si era fatto mandare, settimane addietro, la lista delle domande che intendevo sottoporgli e aveva abbozzato, su un quaderno, non soltanto le risposte, ma anche una sorta di programmazione del libro che avremmo dovuto fare. Leggeva un paio di righe e poi si soffermava diffusamente a raccontare fatti e aneddoti.
Era molto concreto e preciso, ma non disdegnava i fuori programma. Anzi, più domande gli ponevo, più le sue risposte si facevano appassionate. Restammo a parlare per circa otto ore, alla fine delle quali ero distrutto.
Persino mentre mangiavamo non smetteva di argomentare. Si lasciò andare anche a molti complimenti: sulla collana, sul mio modo di lavorare, sulla mia “missione” divulgativa della scienza… Si rivelò come l’uomo che avevo sempre pensato che fosse: brillante, professionale, molto gentile e disponibile. Oltre che un acuto conoscitore degli italiani.
Mi spiazzò con le sue considerazioni sulla comunicazione non verbale dei napoletani e dei siciliani. Conosceva alla perfezione usi e costumi del Lazio e di molte altre parti d’Italia e accompagnava le sue descrizioni mimando le gestualità locali con le mani, gli occhi o il modo di camminare. Non sembrava uno straniero.
Al contrario, pur non padroneggiando la lingua, si muoveva come un italiano. Trovai particolarmente affascinanti le sue considerazioni sui comportamenti non verbali napoletani, paragonati a quelli arabi, americani, indiani…
Non c’era parte del mondo che non conoscesse. Soltanto quando uscimmo, e si offrì di accompagnarmi in macchina alla stazione, prese a raccontarmi della sua famiglia, della moglie e della sorella, che non stava molto bene, all’epoca.
Ragion per cui – disse – non sarebbe potuto venire in Italia a presentare il libro. Mi regalò una copia di tutti i suoi scritti, qualcuno persino in italiano. Ripartii con un bagaglio decisamente pesante, portandomi dietro la concretezza di un sogno realizzato.