Ho incontrato Alfonso Maria Di Nola nel 1996, a Roma, quando già la sua vista era gravemente compromessa. C’era anche un suo allievo, Ireneo Billotta, che lo aiutava nella lettura e nella scrittura, insieme alla moglie. La coppia lo ospitava ormai da tempo a casa propria, perché Di Nola era rimasto solo, dopo il divorzio.
Lo trattavano come se fosse parte della loro famiglia, come un padre – la figlia dei Billotta lo chiamava “nonno” – e ciò lo rendeva estremamente contento.
Ricordo che quando gli spiegai il mio modo di lavorare – ovvero la mia abitudine di leggere tutta l’opera di un autore, prima di intervistarlo – si fece una sonora risata.
Mi indicò l’enciclopedia delle religioni alle sue spalle – una quindicina di volumi dello spessore di 10 centimetri ciascuno – e diversi scaffali colmi dei suoi libri e, sempre ridendo, aggiunse:
“Se davvero vuole leggerli tutti, allora l’intervista non la faremo mai!”
Decisi dunque di ridimensionare il mio progetto, limitandomi alla lettura di alcuni fra i suoi scritti che lui stesso mi suggerì. Dopodiché ci mettemmo al lavoro. In cinque-sei incontri, di oltre tre ore ognuno, misi insieme il materiale sufficiente per almeno due libri.
Le sue risposte erano estremamente precise e accurate – peraltro rimasi sbalordito dalla sua ferrea memoria – e si vedeva che parlare lo entusiasmava.
Aveva accettato di aderire alla collana “I Dialoghi” proprio perché rendersi utile per un progetto culturale rivolto ai giovani lo rendeva felice. Soprattutto, diceva lui, quando a far cultura sono in pochi. A tratti, parlando della propria vita e dei suoi trascorsi professionali, lo sguardo gli si faceva serio e un po’ triste.
La tristezza di Alfonso Maria Di Nola
Di quella tristezza che si depone come un velo sugli occhi di chi non vede più: una tristezza che travalica il mondo di fuori e scende fino giù nell’anima. Nonostante l’affetto di cui era circondato, ho avuto l’impressione che la cecità l’avesse reso più solo, chiuso nel proprio mondo di silenzio e di ombre.
Tornare a parlare di libri, cultura ed esperienze di vita vissuta sembrava restituirgli un’energia per lui fondamentale. Si era creata una tale sintonia tra noi, che una volta mi invitò persino a fargli visita a Vasto, dove abitualmente si recava per le vacanze estive, insieme alla famiglia Billotta.
Ricordo che in quell’occasione il nostro parlare fu molto informale: chiacchierammo a lungo sfiorando vari argomenti, dalla psicoanalisi al Papa, ed esaminando quali fossero gli ultimi veri intellettuali del dopoguerra italiano.
Parlammo a lungo anche di Aldo Carotenuto, che Di Nola stimava molto, perché lo riteneva uno dei pochi “curiosi” della cultura psicoanalitica italiana, altrimenti piuttosto “stantia”.
Si mostrò particolarmente rattristato dal processo di “deculturizzazione” in atto nel nostro paese. Ne incolpava gli intellettuali, ma anche la classe politica, cieca e priva di prospettive.
“I politici si curano dei nodi solo quando vengono al pettine, con gli scioperi o le manifestazioni, ma difficilmente si dedicano ai progetti per il futuro”.
Quanto alla Chiesa, si dichiarava certo del fatto che la sua ingerenza nella politica sarebbe presto aumentata, ingessando così, ancora di più, la società civile. Preconizzava anche una battaglia sotterranea tra politica e religione; battaglia dalla quale la prima ne sarebbe uscita vinta e senza alcuna dignità.
Mi colpì molto questa sua capacità “profetica” di pensare ancora al futuro, nonostante l’età, o forse proprio in virtù della sua età.
A libro ultimato gli proposi una presentazione ufficiale, al pubblico e ai giornalisti, alla quale tuttavia non volle aderire. Quella vaga ombra di tristezza tornò nei suoi occhi e mi disse:
“È forse tempo di lasciare un testamento culturale? Sono forse giunto al capolinea?”
Credo sia stata una decisione dettata dall’estremo pudore di un uomo troppo grande e troppo saggio per mettersi a nudo, in pubblico.