Ho già detto di come la scelta di fare l’editore sia stata quasi imprevista. Di certo non programmata. Eppure, nel ripercorrere la successione delle tappe salienti della mia vita, posso interpretarla – oggi – come una svolta quasi inevitabile, per nulla estranea a ciò che l’ha preceduta.
C’è una sorta di continuità tra lo studente che ero, quando scelsi la laurea in Chimica, e l’editore che sono. Sicuramente, di fondo, c’è lo stesso tipo di idealismo.
Mi iscrissi a Chimica subito dopo che Giulio Natta aveva vinto il Premio Nobel, nel 1963: Premio Nobel che aveva significato, in un’epoca alquanto anonima, la speranza di un rilancio per la ricerca scientifica italiana. Speranza che, purtroppo, allora come in seguito, non si è mai concretizzata appieno.
Al tempo, non sapevo bene cosa avrei fatto dopo, ma sull’onda di un entusiasmo tipicamente giovanile pensavo di voler diventare uno scienziato, qualcuno che per antonomasia è “utile” all’umanità.
Peraltro, conoscevo bene – e ne subivo la fascinazione – la potenza dei composti chimici, in quanto mio padre era stato prima artificiere e poi impiegato in diverse aziende produttrici di sostanze esplosive.
Con mia grande delusione, ho dovuto rendermi conto che l’università, almeno per ciò che attiene alla facoltà di Chimica, non mirava in alcun modo alla formazione di scienziati; piuttosto, il fine ultimo era la serializzazione di tecnici per l’industria.
In cinque anni di studi, nessuno si è mai degnato di spiegarmi cosa fosse la Chimica, di dove fosse nato il bisogno di catalogare gli elementi di natura in base alle loro caratteristiche chimiche, quali fossero le radici storico-culturali di questa disciplina. Non mancavano, invece, di sottolinearne l’utilità pratica, il fatto che “serviva” a qualche cosa.
Anche adesso che sono editore, e mi occupo di divulgazione scientifica, non faccio che trovare ulteriori conferme del fatto che – in generale – nel nostro Paese c’è una scarsa attenzione per la storia della scienza.
Studiare il passato per comprendere il presente
Non c’è senso storico, né alcun interesse per l’anima, per il dinamismo intrinseco a una data disciplina scientifica. È stato Mirko Grmek, storico della medicina, autore di un magnifico libro della mia collana (La vita, la malattia e la storia), che mi ha aiutato a riscoprire e rivalutare l’importanza della storia, delle radici, del passato per comprendere il senso dell’attuale.
Senza un’adeguata conoscenza critica ed epistemologica delle proprie origini intellettuali, gli scienziati finiscono per diventare semplici impiegati, ragionieri o burocrati delle loro discipline.
Tornando agli anni dell’università e delle prime esperienze professionali, a poco mi valsero gli studi di radiochimica. Gli unici sbocchi che il mercato offriva – ieri come oggi – erano di tipo industriale.
Se vogliamo, l’ingresso nel mondo del lavoro ha segnato la fine di una sorta di “utopia scientifica”. Oggi, so che quello che non mi ha dato l’università e l’industria, me lo ha restituito – a distanza di molti anni – la divulgazione scientifica, che ho eletto quasi a missione personale, in qualità di editore.
Ma se è facile rintracciare un nesso tra il mio precoce entusiasmo per le scienze e la mia attuale linea editoriale, meno evidente è il legame tra questa e la mia seconda laurea, in Psicologia.
Credo di essermi iscritto alla facoltà di Psicologia (peraltro in età già più matura), e di essermi poi dedicato alla psicoanalisi junghiana, per una scelta di rottura. Cercavo una spiegazione “altra”, se vogliamo meno rigorosa, ma di certo non meno creativa, agli eventi della vita.
Tuttavia, non si trattò mai di un vero divorzio: è difficile sottrarre a un chimico il suo antico rigore. Piuttosto, imparai ad apprezzare, per il tramite della psicoanalisi e dell’amico Aldo Carotenuto, le qualità dell’epistemologia.
In un paio di occasioni ho anche cercato di ricreare un legame tra queste mie due esperienze formative – dedicandomi alla stesura di libri sul rapporto tra scienza e psicoanalisi – ma mi sono via via convinto, nel tempo, che è un errore – nel quale incedono più spesso gli psicoanalisti, che non gli scienziati – cercare a tutti i costi una comunione d’intenti tra esperienze così diverse, sebbene complementari.
Si creerebbe un’inutile confusione di linguaggi o si passerebbe il proprio tempo nella ricerca di sterili equivalenze linguistiche. Rammento che l’amico Boncinelli mi ha raccontato, una volta, di quanta fatica avesse fatto, da docente universitario, per spiegare ai suoi alunni che non vi era alcun legame tra l’RNA-transfer (componente genetica) e il transfert (termine freudiano).
La psicoanalisi e l’Editoria
Il percorso analitico ha avuto sulla mia vocazione editoriale e la voglia di diventare editore: vi ha aggiunto qualcosa di essenziale, ovvero l’attitudine all’ascolto.
Sebbene tutti i libri della mia collana nascano come interviste – da me condotte – io non compaio mai nella stesura finale, dove le domande vengono eliminate.
Non si tratta di mera strategia di editing. C’è una ragione “psicoanalitica” alla base: quella tecnica che consente di passare da un ascolto passivo a uno attivo, senza che ciò interferisca sulla narrazione altrui, captandone al contrario le parole chiave, i nodi di tensione, i problemi irrisolti, il non-detto.
La domanda, in un’intervista, non è che lo spunto, il “la” della conversazione: il resto lo fa l’intervistato. Ed è giusto che sia lui, e lui soltanto, a comparire, alla fine.
Un’altra ragione per la quale non m’impongo come intervistatore è da rintracciare nel fatto che, per me, il fare libri risponde a esigenze di lettore, prima ancora che a progetti editoriali o a mire e velleità di scrittore.
Arcidiacono – il primo autore con il quale ho inaugurato la casa editrice – lo pubblicai per scelta di lettore: era quello che avrei sempre voluto leggere sulla scienza.
Il duplice ruolo dell’editore
Mi rendo conto che essere editore mi pone nel duplice ruolo di deus ex machina e di spettatore. Ruoli a volte difficili da conciliare, quando ci si trova dinanzi a scelte che hanno anche un carattere economico-commerciale.
Sono un uomo fortunato, se posso dire di aver pubblicato ogni mio libro con piacere e con profitto. Ma con tutta la fatica che questo piacevole impegno mi richiede, mi domando perché non esistano premi letterari per gli editori.
D’abitudine, si premiano soltanto gli autori, al massimo i traduttori. Ma l’editore che ha creduto in quel libro, che vi ha investito denaro, energie, fiducia… Perché l’editore viene quasi sempre declassato al ruolo di colui che “ci guadagna”?
È uno stereotipo difficile da scardinare: l’editore è il cinico commerciante, il nemico dell’arte, il profittatore dell’altrui ingegno…
Probabile che tra gli editori disonesti molti rientrino nella fattispecie, ma gli onesti – che come il sottoscritto in quel che fanno ci credono, anche al punto di rimetterci – credo assomiglino molto più a un Don Chisciotte, che non a uno Zio Paperone.