Chiunque abbia letto almeno un libro di Freeman Dyson avrebbe avuto voglia di conoscerlo di persona. La sua ingegnosità, infatti, va oltre la semplice scienza: è fanta-scienza, da intendersi non come genere letterario, ma come capacità assolutamente geniale di prevedere gli sviluppi più impensabili della fisica.
Ricordo, per esempio, che diversi anni fa, quando l’ho intervistato per la collana “I Dialoghi”, mi parlò della possibilità di creare delle “serre” su Marte. Sì, vere e proprie serre dove coltivare pomodori o peperoni, per soddisfare l’accresciuto e sempre crescente fabbisogno alimentare del pianeta Terra. Non vi nascondo che trovai l’idea estremamente divertente, ma ben poco credibile.
Eppure, a meno di dieci anni di distanza, la NASA comunica che sta esaminando se l’ambiente di Marte sia compatibile per eventuali “coltivazioni spaziali”.
Altro che mais transgenico! Quando ho appreso la notizia avrei voluto chiamarlo e chiedergli: “Dimmi la verità, tu già lo sapevi?” E probabilmente dall’altra parte del filo avrei sentito una sonora risata.
Già, perché credo che tra tutti gli scienziati che ho intervistato Dyson sia uno dei più inclini a una buona e sana risata.
Il primo incontro con Freeman Dyson
Il nostro primo contatto, nel 1997, si limitò a uno scambio di fax: “Vengo?” Chiesi io. “Vieni”, rispose lui. Poche formalità e anche una certa brevità che mi fece temere il peggio: vuoi vedere che non è come nei suoi libri, ho pensato. Invece poi mi spiegò che non aveva opposto alcuna resistenza alla possibilità di fare un libro insieme, quando aveva visto che nella stessa collana compariva anche il nome di Margherita Hack, sua carissima amica italiana e della quale si fidava molto.
Così, poche settimane dopo ero all’Institute for Advanced Study dell’Università di Princeton, a Boston. Anche dal vivo, come via fax, si dimostrò breve e incisivo, tanto che mi ci vollero solo quattro ore per farmi raccontare tutto, ma proprio tutto della sua vita e della sua professione. Non che fosse restio a parlare, al contrario.
Era come se le parole gli scorressero davanti agli occhi simili alle immagini di un film: chiare, nette e a tratti esilaranti. Di persona era magrissimo, forse perché l’altezza ne esaltava la corporatura esile. Parlava con assoluta rilassatezza, tenendo le mani incrociate dietro la nuca e dondolandosi sulla sedia dietro alla scrivania del suo ufficio.
E io che per tutto il tempo, oltre a non perdere nemmeno una delle sue parole – ma dovrei dire piuttosto delle sue “visioni stereoscopiche” – mi chiedevo terrorizzato cosa avrei dovuto fare, se fosse caduto, perché si manteneva in un equilibrio davvero instabile.
La cosa che mi colpì maggiormente fu quando, con assoluto candore, mi confidò che in fondo lui non aveva fatto granché di nuovo, sia nel campo della fisica, che in quello della matematica, ma era stato fortunato nel trovarsi a lavorare con un gruppo di fisici proprio al momento opportuno, ovvero quando tutte le sue conoscenze potevano essere utilizzate al massimo.
Durante la conversazione si era instaurato un clima di complicità, come fra compagni di scuola che si raccontano l’ultimo scherzo fatto. A un certo punto, mi guardò fisso negli occhi e con insolita serietà mi disse:
“Mi ha colpito molto che lei abbia affrontato un viaggio così lungo apposta per incontrarmi di persona. Di solito, la maggior parte degli editori traducono e pubblicano, senza entrare troppo nel merito delle cose che stanno pubblicando”.
Credo sia stato il primo scienziato americano che mi ha parlato incondizionatamente bene dell’Italia. Disse:
“È uno dei pochi paesi esterofili in materia di pubblicazioni, il che alimenta una cultura internazionale. Ci sono paesi, in Europa, ma anche l’America è così, che preferiscono chiudersi in se stessi, sulla propria cultura e basta, e questo non è un bene. E poi l’Italia non ha nulla da invidiare agli altri paesi in quanto a talento, intelligenza e capacità creative”.
Quattro ore di intervista
Dopo quattro ore di ininterrotto parlare finalmente tirò il fiato e mi invitò a pranzo. Sarà stato quel conversare così fitto, così denso, che mi aveva tirato fuori dal mondo, da ciò che mi circondava, ma quando uscimmo dalla sua abitazione – che era interna al campus – mi sentii un po’ spaesato, come se vedessi quel paesaggio per la prima volta: l’aria frizzante della primavera dava un che di gioviale agli studenti intenti a leggere sui prati tutto intorno. E il sole faceva risaltare il bianco del villino a due piani dal quale eravamo appena usciti.
A mensa facemmo la fila come tutti, insieme agli studenti, e a nessuno venne in mente di dire “prego passi avanti, professore”, sarebbe stato un gesto di cattivo gusto.
Mentalmente, provavo a immaginare un professore di una qualsiasi università italiana che va alla mensa studentesca e fa la fila… Troppo inverosimile per riuscirci; mentre qui, era la cosa più naturale del mondo.
E allora pensai che avrei voluto trasporre anche questo nel libro di Dyson, questo suo essere semplicemente uno fra tanti. Mangiando, trovammo un altro po’ di tempo per abbandonarci a confidenze di tipo più personale. Io gli parlai della mia famiglia e dei miei studi – prima la chimica e poi la psicologia e la psicoanalisi – mentre lui mi raccontò di sua figlia (che lavorava al fianco di Bill Gates) e del fatto che, da quando si era separata, era lui a occuparsi dei nipoti.
Mi chiese se secondo me – come figura paterna – poteva essere all’altezza…Se non avrebbero risentito di questa strana condizione familiare…
Raccontava, con una dolcezza che finora non gli avevo ancora visto nello sguardo, che quando rincasava, i ragazzi gli correvano incontro. Si fermò quasi esitante e mi chiese:
“Che senso ha tutto quello che ho fatto? La scienza, la mia carriera… Forse le sembrerà esagerato, ma sento che rinuncerei a quanto ho conquistato in tutti questi anni, in cambio di un sorriso dei miei nipotini”.