Max Perutz, un Nobel sconosciuto!

Max Perutz

Ho incontrato Max Perutz a Cambridge, dove lavorava, nel 1996. Rammento che quando chiesi alla centralinista dell’Università di Cambridge, se poteva avvisare Perutz del mio arrivo, lei mi rispose con aria serafica che non sapeva chi fosse.

Ma come – mi sono detto – un premio Nobel e non sa chi sia? Probabilmente, a Cambridge, ne hanno troppi di premi Nobel per ricordarseli tutti!

Comunque, chiarito l’inconveniente grazie al pratico uso di una rubrica, nella quale alla lettera “P” compariva anche Max Perutz, quello che mi vidi venire incontro – a passo spedito e con un sorriso accogliente – era un uomo sugli ottanta, molto magro e altrettanto vispo.

Ci fermammo a parlare proprio lì, davanti alla centralinista, senza troppi convenevoli, come due amici che si conoscono da sempre. Un atteggiamento, questo, piuttosto diffuso tra gli scienziati, soprattutto se anglosassoni: ti parlano come se fossi uno di loro, del loro gruppo. E mentre eravamo lì a conversare, ecco che mi scivola un foglio per terra. Faccio per piegarmi, ma lui – ben più prontamente – l’ha già raccolto e me lo porge, sempre sorridendo.

Poi mi invita a salire nel suo ufficio: rigorosamente a piedi e, com’era prevedibile, con il sottoscritto che si affanna per tenere il passo del suo ospite. Se l’inconsapevolezza della centralinista mi aveva stupito, ancor di più rimasi sorpreso nel vedere il suo ufficio: una stanza piccolissima, con uno scaffale pericolosamente traboccante di libri, un paio di armadi, un lavandino, burette e becker sparsi ovunque.

Insomma, una stanza tutt’altro che curata. Accanto alla finestra, c’erano due piccoli vasi, con dentro delle piante grasse. Probabilmente le uniche forme viventi capaci di resistere 24 ore, ogni giorno, in quella stanza. Poi c’era qualcosa, ma non ricordo di che genere, appeso al muro.

Un tè con Max Perutz

Ad un certo punto, Max mi chiese se gradivo un tè, di quelli all’inglese, ci tenne a specificare.

E io accettai ben volentieri, sia per la cortesia, sia perché in giro non si vedevano teiere o cose simili e quindi eravamo costretti a uscire… Avevo davvero bisogno d’aria! E invece, lui prese un becker, ci versò dentro dell’acqua e lo mise a scaldare.

Appena pronto il tè, vi aggiunse del latte, salvo poi accorgersi che era guasto e allora niente tè. Quando riprendemmo la nostra conversazione cominciai anche a sentirmi a mio agio in quella ristretta confusione. Ma credo sia stato il suono della sua voce a farmi dimenticare quello che c’era intorno. Restammo almeno quattro ore a parlare e scambiarci idee sul senso della scienza, mentre con un piccolo registratore mi accertavo che nessuna di quelle preziose parole andasse persa.

Avevo già intervistati altri personaggi di rilievo, ma ammetto che attorno a lui – forse per quel suo portamento very english e al tempo stesso molto informale – c’era quasi un’aura magica.

Adesso cominciavo a capire perché tutti parlavano bene del Cavendish – il suo laboratorio – semplicemente perché Perutz era un grande trascinatore, sia sul piano umano che scientifico.

È stata per me una fortuna e una bellissima esperienza incontrarlo e devo di questo ringraziare il mio ex-professore di chimica-fisica all’università, Alfonso Maria Liquori, che in gioventù aveva anch’egli trascorso molto tempo al Cavendish, lavorando fianco a fianco con Max Perutz.

E adesso, a trovarmelo davanti, capivo finalmente tutta l’ammirazione che Liquori mi aveva trasmesso.

I Baroni dell’Università

Fra le tante cose di cui parlammo, gli chiesi anche se aveva mai avuto modo di collaborare con qualche struttura o laboratorio italiano.

Mi rispose, quasi con una sottile sfumatura di rammarico, dicendo che aveva collaborato solo con singoli scienziati italiani – quelli che erano venuti a lavorare da lui, nel suo laboratorio – e che dalle loro bocche ne aveva sentite di cotte e di crude circa la situazione scientifica del nostro paese.

Era buffo e al contempo tragico sentirlo parlare di menti eccellenti, di veri talenti sprecati, perché legati mani e piedi da una sciocca burocrazia, se non addirittura ostacolati dagli stessi cattedratici: “Si chiamano baroni, vero?”, chiese a conferma, pronunciando la parola in uno strano italiano che tuttavia non ne cambiava il senso: i baroni sono quelli che, una volta fatta carriera, s’impegnano per non farla fare agli altri.

“È un vero peccato”, continuò, “che un giovane di talento e buona volontà debba vedersela con simili ostacoli: tempo e risorse negati alla ricerca e alla scienza”. Disse anche che non gli piaceva l’atteggiamento tipico del professore universitario italiano, che si contorna di amici non scientificamente validi, ma politicamente influenti.

Scienza e politica non dovrebbero entrare troppo in intimità”, disse. Infine, quasi a voler dare il colpo di grazia, mi raccontò di quando aveva accolto nel suo laboratorio il giovane Watson – poi Nobel, insieme a Crick, per la scoperta della struttura del DNA – lasciandogli carta bianca sul genere di esperimenti da condurre, anche se li avevano preventivamente concordati, e sulle eventuali pubblicazioni.

Watson ha potuto così pubblicare a proprio nome l’articolo che lo ha portato al premio Nobel. Figuriamoci se in Italia glielo avrebbero lasciato fare!

Mi fece alcuni nomi di scienziati italiani che stimava molto, i più noti sul piano internazionale, come Rita Levi Montalcini e Carlo Rubbia, ma ci tenne a precisare che non avrebbero mai ottenuto il Nobel se fossero rimasti a lavorare in Italia.

Dopo quella prima volta, ci siamo rivisti ancora. Ogni tanto passavo da Cambridge, sempre in cerca di talentuosi scienziati da inserire nella mia collana, e non mancavo mai di fargli visita.

Fu in una di queste occasioni che mi presentò il figlio di Enrico Fermi, Giulio, che all’epoca dirigeva un laboratorio accanto al suo e insieme collaboravano ad alcune ricerche. Mi disse: “Vedi, lui è un italiano che merita un libro”, alludendo al fatto che avrei potuto inserirlo nella collana “I Dialoghi”, dove avevo già pubblicato l’intervista a Max Perutz.

Purtroppo, di lì a poco, Giulio Fermi morì, prima che potessi intervistarlo per il libro.

Di Perutz, anche dopo che è scomparso, continuo ad avere nitida nella mente la figura di un uomo estremamente serio – dal punto di vista professionale – ma felice come un bambino per aver potuto fare quanto si era prefisso fin da piccolo.

Perché il suo era stato un sogno precoce: la scienza, sempre e ad ogni costo. Emanava consapevolezza del prestigio raggiunto, ma una consapevolezza che non si traduceva in arroganza, bensì nel desiderio di far progredire la scienza, e con essa i giovani scienziati, ancora e ancora e ancora…